...Come a tutti i ragazzi della nostra età, anche a noi piaceva l’idea di avere una Vespa. Era bello andarci a scuola, aveva le marce, una comoda sella che tanto piaceva alle ragazze e poi, innegabilmente, aveva fascino. Il fascino romantico del neorealismo del dopoguerra. Quello più prammatico della tradizione operaia italiana. Il fascino mai sbiadito dei film in bianco e nero e quello, tutto estetico, di un sellino comodo sul quale assumere la giusta posa. Sull’onda di un improvviso entusiasmo tutti i liceali italiani stavano, in quegli anni, svuotando solai e garage alla ricerca di vecchie 50 Special da restaurare...

 

...Marco spuntò dal retro di casa spingendo quella che, mosso dall’entusiasmo, già mi sembrava la mia personale Harley Davidson. Era blu e aveva qualche graffio. Vecchia di trent’anni, si portava dietro quella classica aria vissuta, di strada e polvere, che fece palpitare immediatamente il mio cuore. Simone continuava a raccontare che se Ernesto Che Guevara e il suo amico Alberto Granado avevano girato l’America Latina a cavallo di una vecchia Norton 500, da loro poi ribattezzata “la Poderosa”, noi potevamo tranquillamente andare in Portogallo con la Vespa del Togna. In prestito...

 

...Così è per i viaggi. Rincorri una meta per tanto tempo e poi, quando in fine la raggiungi, ti chiedi se ne è valsa la pena. E quando la risposta è affermativa non riesci a non pensare che adesso che sei arrivato dovrai anche ripartire. In cerca di un altro sogno e una nuova destinazione. Come aveva detto Federico una sera, viaggiare è meglio che arrivare....

 

...Fu il punto di non ritorno.

 Il punto in cui il nostro viaggio poteva considerarsi riuscito. Completo.

Qualsiasi cosa fosse successa dopo non avrebbe avuto importanza. Quello che avevamo davanti bastava e avanzava per tutti. Credo di essermi innamorato dell’oceano quel giorno. La sensazione di regale potenza, che ancor oggi la sua vista mi trasmette, è la stessa che provai quel giorno. E’ libertà. E’ poesia. E’ amore. E’ forza. E’ vita. Eravamo come travolti. Il cervello fuso nella sabbia. Non esistevano più i tremilacinquecento chilometri che ci separavano da casa. Non esistevano più la stanchezza o i soldi ormai quasi finiti. C’erano solo l’oceano, i nostri piedi nella sabbia e il sole sulla pelle...

 

Giratosi casualmente a guardare indietro, Simo aveva notato che Fede non ci seguiva più e la sua Vespa giaceva a terra sul ciglio della strada. Aveva per un attimo pensato di aver confuso la visuale a causa del riflesso del sole, ma poi si era allarmato. Invertimmo la marcia e tornammo indietro.

Intontito dalla stanchezza non capivo cos’era successo. Fede stava camminando sul ciglio della strada in evidente stato confusionale. Cercava di spingere la Vespa con una mano. L’altra sanguinava copiosamente. Lo fermammo e ci spostammo tutti a lato della carreggiata. Eravamo spaventati. Non l’avevamo visto cadere e non sapevamo se avesse riportato ferite che non potevamo vedere.

“Fede come ti senti?”

“Non so… credo di essere caduto…”

“Stai calmo, cerca di respirare.”

“Cosa è successo? Ti sei fatto male?”

Visti i pantaloni strappati e la mano sanguinante, la domanda non sembrava molto pertinente. D’altronde, si sa come vanno le cose in quei momenti.

Fede sembrava ad ogni modo sorpreso.

“No… sto bene… non ho niente…”

“Come sarebbe non hai niente?! Sanguini cazzo!”

Simo, quando voleva, sapeva essere veramente chiaro.

“Ma cosa è successo?”

“Non so... devo aver preso sonno…”

“Hai preso sonno?!”

“Credo di si…”

Fede si era addormentato per un attimo in prossimità di uno svincolo e, quando si era svegliato, si era ritrovato disteso tra il ghiaino sotto il guardrail. Stavamo attraversando un lungo altipiano e il calore, unito a quello creato dai motori sotto di noi, era così debilitante che la possibilità di addormentarsi guidando non era nemmeno tanto inverosimile. La mano incidentata era scorticata e ricoperta di polvere. Minuscoli sassolini si erano infilati sotto la pelle. Le altre ferite erano contusioni di minore entità. Bisognava operare.

Prima di tutto occorreva disinfettare. Fede sembrava essere stato morso da una tarantola. Si muoveva scoordinato, eccitato e provato dalla brutta esperienza.

“Fede stai tranquillo che adesso disinfettiamo tutto!”

“E con cosa la pulite?”

“Simo tieni ferma la mano!”

Non avevamo a disposizione nessun elemento di pronto soccorso, a parte le solite famigerate pastiglie per la diarrea.

Presi la bottiglia di tequila e ne versai qualche sorso sulla ferita. Nel frattempo con un fazzoletto di carta strofinavo via i sassolini.

Fede cominciò ad eruttare primordiali urla di dolore. Una serie d’imprecazioni talmente svergognate e potenti che Simo ed io dovemmo far ricorso a tutte le nostre forze per non sbracare in una clamorosa, quanto inopportuna, risata...

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